il romanzo traumatico delle immagini

Lo sguardo del generale è catturato in un vortice prodotto dall’improvvisa apparizione di una sorta di alter ego. L’autoritratto di Van Gogh sembra rivelare un’immagine sepolta nei tenebrosi recessi della sua mente: animandosi il “Vincent in fiamme” diventa lo specchio nel quale si riflette l’anima in fiamme del generale Tanz. È come se il quadro “parlasse” al di là di ciò che offre alla vista. Nel sistema della visione si apre una ferita, un punto cieco e incandescente, come il cratere di un vulcano, dal quale comincia a colare una materia letteralmente “delirante”, ma che è al tempo stesso l’espressione di una verità oscura ed esorbitante.

L’opera d’arte diventa così il nucleo traumatico attraverso il quale si produce un effetto di transverberazione (pensiamo alla scultura del Bernini raffigurante Santa Teresa d’Avila “trafitta” da un angelo). Nel momento in cui il quadro si buca, da esso si libera qualcosa che, a sua volta, perfora la coscienza di chi lo osserva, dispiegando la piega cieca del visibile e mettendo a nudo il soggetto della visione. Doppio movimento paradossale: mentre lo sguardo del generale Tanz trapassa il quadro di Van Gogh, la scena cieca che si apre al di là di esso trapassa la visione del generale inabissandosi nella parte cieca di se stesso.

La storia dell’arte è costellata di simili incontri traumatici con le immagini. Pensiamo a Stendhal, soggiogato dallo spettacolo della Basilica di Santa Croce a Firenze, e alla “sindrome” che porta il suo nome: uscendo dalla chiesa lo scrittore fu vittima di una crisi nervosa, con tachicardia, tremori, vertigini e perdita dell’equilibrio. Anche la sua anima andò in fiamme, a causa questa volta dell’insostenibile bellezza riverberata dagli affreschi del Volterrano nella Cappella Niccolini.

Là, seduto sul gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, all’idea di essere a Firenze, vicino a grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Assorto nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, per così dire la toccavo. Ero arrivato a quel punto d’emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere.

Talvolta le immagini sono capaci di trafiggere chi le osserva suscitando letture difettose o distorte, rêveries, turbamenti e rapimenti estatici, ossessioni, incubi, allucinazioni. Eclissandosi la visione riemerge da questi crateri traumatici come un getto di lava. Il trauma, come il lutto, chiede di essere “elaborato”: dallo shock con le immagini può sprigionarsi un magma di parole ove ribollono e proliferano nuove immagini, le quali saranno però sempre un po’ fuori di sesto, “deliranti” rispetto all’originale. È come se i quadri a un certo punto si mettessero a parlare: rivoli di parole che affiorano dal loro rovescio cieco, che si sviluppano dal gorgo traumatico nel quale la loro parte buia non cessa di aggrovigliarsi e confondersi con la parte muta di noi stessi.

Cecità che fanno parlare, mutismi che fanno immaginare

Il progetto dei Tableaux Parlants non intende dare voce ai quadri attraverso i discorsi che vi si aggiungono per “completare” – mediante descrizioni (ekphrasis), spiegazioni, interpretazioni o speculazioni – ciò che c’è di visibile in essi, o ciò che in essi si gioca rispetto al visibile. Il tentativo consisterà piuttosto nel far parlare gli intervalli muti, nel far vedere i punti ciechi, situandosi negli interstizi abissali che si aprono fra le immagini e le parole, e nei quali continua a scorrere una linfa turbolenta e limacciosa, una materia informe, indecidibile.

Intersecando gli archivi luminosi della storia dell’arte, questa linfa oscura permetterà di ri-costruire, in modo frammentario e senza pretese di esaustività, una sorta di romanzo traumatico delle immagini. Non una raccolta di discorsi sulle opere, ma la ricerca di quelle voci letteralmente “infantili” che nascono nel loro incavo cieco; parole che avanzano a tentoni cercando di elaborare il trauma della visione; balbettii che emergono dall’altro lato dello specchio, che fuoriescono dai buchi che trafiggono la visione non cessando di trapassarla e di farla trapassare; deliri che mentre ci fanno deviare dall’originale deportandoci altrove, producono un tumultuoso corteo di nuove immagini.

Immagini che fanno nascere parole, parole che fanno pullulare nuove immagini